[a cura di G. Petrillo, Zanichelli, Bologna 2017]
Fondata nel 201 o da un gruppo «di traduttrici e traduttori e di appassionati di buone letture», tra cui Ena Marchi e Susanna Basso, la rivista on-line «Tradurre» si propone di dar voce a coloro che hanno fatto e fanno le traduzioni che leggiamo, studiandone le figure, la storia, le pratiche: non solo i traduttori stessi, ma anche figure “invisibili” del lavoro editoriale quali direttori di collana, redattori, correttori di bozze, revisori. Ora Gianfranco Petrillo, direttore della rivista, ne cura un’antologia in volume, Tradurre. Pratiche teorie strumenti, che non vuole essere soltanto una sintesi di sei anni di articoli, bensì un’introduzione a questa originale e articolata visione del processo traduttivo.
L’idea è colmare il vuoto che esiste attualmente intorno alla traduzione editoriale, raccontando il dietro le quinte di un processo tanto vario da poter essere compreso solo partendo dal conflittuale e intimo rapporto fra i diversi personaggi coinvolti. L’obiettivo è, dunque, raccontare, piuttosto che teorizzare, l’esperienza di chi, per contingenza o per passione, si è confrontato o scontrato con le regole e le prassi dalla filiera editoriale, con l’intento esplicito di «rendere dignità culturale al mestiere del tradurre, svelandone, in tutti i suoi risvolti, la complessità e la ricchezza, la profondità e l’inventiva, la durezza e la leggerezza».
Il volume presenta un ventaglio di contributi molto ampio, organizzato in tre sezioni: Pratiche, Teorie, Studi e Ricerche, che corrispondono alle principali rubriche della rivista. La prima ospita le riflessioni a posteriori di alcuni fra i più affermati traduttori italiani, come Enrico Terrinoni che, nel raccontare le strategie messe in campo nella traduzione dell’Ulisse di Joyce, sottolinea l’intento democratizzante alla base del proprio progetto traduttivo: il testo è ambiguo e demotico al tempo stesso; la lingua è tutt’altro che semplice e, proprio per questo, in grado di stimolare ed elevare il senso critico del lettore. Teorie apre, invece, il dibattito sulla teoria della traduzione. I saggi rispondono a molteplici interrogativi in sede teoretica e ne aprono di nuovi, spaziando dal tema dell’approccio scientifico in campo traduttivo ai metodi di valutazione. In un intervento chiarificatore Bruno Osimo afferma che le traduzioni vanno giudicate «esclusivamente in funzione dell’impatto che hanno sulla cultura ricevente» e che non si debbono dunque formulare criteri normativi e prescrittivi. La sensazione è che questa sezione sia volutamente ridotta rispetto alle altre due, in modo da convogliare l’attenzione sullo spazio, ancora poco esplorato, della concreta esperienza del tradurre.
La terza e ultima parte getta luce, infine, su alcuni dei nomi, più e meno noti, dell’editoria del Novecento, sui loro percorsi biografici, sulle loro relazioni e sui principali progetti traduttivi, indagando il contesto in cui si sono sviluppati. «Barbara si era immersa personalmente nell’attività clandestina», osserva Petrillo nel saggio su Barbara Allason e sua nipote Anita Rho, entrambe aderenti a Giustizia e Libertà, «ma intanto licenziava la sua traduzione di Also sprach Zarathustra, con una Introduzione in cui metteva in guardia da compiacimenti estetici. Anzi, si spingeva più in là, vedendo nel nazismo da poco giunto al potere l’esito delle “profezie” nicciane, ancorché Nietzsche “non fu mai né antisemita né statolatra”». Particolarmente illuminanti, i saggi su Diego VaIeri, Oreste Del Buono, Natalia Ginzburg e Gian Dàuli denotano un carattere transdisciplinare che amplia il metodo dei Translation Studies servendosi degli strumenti analitici propri delle scienze sociali, in linea con gli attuali interessi del campo traduttivo cui la rivista intende fornire ampi spazi di crescita e di confronto.
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